Di Marco Ziliotti
Il 6 marzo scorso ventisei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, superando (finalmente!) la regola dell’unanimità, hanno approvato il piano denominato ReArm Europe. Declinato in cinque punti, esso istituisce uno strumento finanziario comune europeo, che fornirà 150 miliardi di euro agli Stati membri per investimenti nella difesa; introduce una deroga (clausola di salvaguardia) ai parametri del patto di stabilità e crescita, che apre uno spazio fiscale ai singoli Stati per spese per la difesa di ulteriori 650 miliardi; promuove la mobilitazione di capitali privati, tramite la Banca Europea per gli Investimenti, al fine di incentivare gli ingenti risparmi europei al finanziamento di imprese domestiche del settore difesa.
Dunque, un pacchetto da 800 miliardi di sole risorse pubbliche, oltre a quelle private, che, da un lato, con la deroga da 650 miliardi, manda di fatto in soffitta i vincoli dell’appena nato patto di stabilità e crescita; dall’altro, col fondo europeo da 150 miliardi, compie il primo passo verso la costituzione di un vero sistema di difesa comune, necessariamente finanziato da comuni risorse.
Il progetto, per le sue dimensioni e soprattutto per la natura dei suoi obiettivi, può a tutta evidenza essere definito di portata storica. È altrettanto evidente che “ReArm”, per di più “a casa nostra”, è una parola che non dovrebbe suscitare entusiasmo da parte di nessuno. Ben comprensibile, quindi, che l’iniziativa abbia provocato un acceso dibattito, non solo nelle stanze della politica di professione, ma anche fra l’opinione pubblica e nelle coscienze stesse dei cittadini. Il ché è bene, volendo fortemente continuare a credere che il libero confronto dialettico tra idee sia il valore più prezioso delle nostre democrazie liberali.
Ma, in un tornante della Storia oggettivamente così complesso, è indispensabile avere chiari alcuni cruciali elementi di contesto. Primo dato di fatto è il velocissimo e rilevante incremento dei rischi geopolitici per i Paesi europei. Intendiamoci: non si tratta qui di evocare scenari con la cavalleria cosacca in Piazza S. Pietro; ma è innegabile l’inquietante crescendo dell’uso della forza contro l’Europa da parte della Russia di Putin. Violenza militare vera e propria, mobilitando tutte le risorse umane ed economiche disponibili, in Ucraina. Ma pure violenza nella forma insidiosa della guerra ibrida: continui cyberattacchi, sempre più aggressivi e diffusi, ai sistemi informatici prevalentemente di enti pubblici; ingerenze sempre più pervasive sulle opinioni pubbliche, soprattutto in occasione degli appuntamenti elettorali, con massiccia e scientifica diffusione di fake news e tramite sostegno – più o meno coperto – a formazioni politiche e partiti apertamente antieuropeisti, quando non espressamente filorussi. Il ripristino della storica influenza russa con un perimetro analogo a quello dei tempi dell’U.R.S.S. è un obiettivo dichiarato; e non è certamente di conforto che, come affermato pochi giorni fa dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, “la visione della nuova amministrazione americana riguardo alle configurazioni di politica estera coincide in gran parte con la nostra visione”.
Secondo punto: quanto sopra pone un problema urgente di deterrenza. Urgente: sarebbe certamente meglio partire prima con la costituzione di un sistema di difesa unica europea e solo dopo procedere al riarmo. Ma non c’è tempo. Per fare l’Euro ci sono voluti almeno dieci anni (dalla crisi del Sistema Monetario Europeo al 1° gennaio 2002, quando la moneta unica cominciò a circolare fisicamente). L’esercito europeo necessita di un lungo processo di costruzione, legato a doppio filo con l’edificazione di una casa politica comune. Deterrenza, che non significa affatto volontà bellicista, ma, esattamente al contrario, rafforzamento del potere negoziale; unica strada per rendere realistica – e non solo una vacua invocazione – la prospettiva di soluzioni diplomatiche sulle basi più durature e meno ingiuste possibili.
Terzo aspetto, forse il più delicato: la spesso evocata pretesa alternativa della spesa in burro anziché in cannoni. Chi, a priori, non preferirebbe che la spesa pubblica privilegiasse scuole ed ospedali rispetto a scopi militari? Ma, posta in termini decontestualizzati, la domanda ancora una volta rischia di essere pericolosamente – o, peggio, colpevolmente – fuorviante. In primo luogo, va ricordato, perché la spesa in sistemi difensivi, al giorno d’oggi, non consiste tanto in bombe e fucili, bensì prevalentemente in ricerca e sviluppo di tecnologie avanzate (sicurezza informatica, intelligence), con comprovate esternalità positive in termini di innovazioni ampiamente utilizzabili in ambito civile (si pensi, solo per citare due possibili esempi, ai droni ed ai sistemi di cybersicurezza). Non solo, ma la consistente mole (800 miliardi di euro) di risorse mobilitate può consentire massicce operazioni di riconversione di settori industriali in crisi (automotive, per esempio), generando sostegno all’occupazione ed effetti economici moltiplicativi (in passato, si sono calcolati moltiplicatori della spesa militare – soprattutto se indirizzata a tecnologie innovative – pari fino all’1,5: la spesa di 1 euro genera un aumento del PIL di 1,5 euro, cioè crea un reddito che supera del 50% l’autofinanziamento della spesa stessa).
Ma, prima ancora dell’affermazione – antiestetica finché si vuole, ma vera – che gli investimenti in sistemi di difesa possono rappresentare un efficace volano per l’occupazione e la crescita economica, il paventato conflitto tra spesa militare e welfare sociale parte da un equivoco di fondo. La sicurezza – garantita proprio dai sistemi di difesa – è indispensabile presupposto rispetto ad ogni altro elemento costitutivo del benessere collettivo. Qualsiasi diritto (all’istruzione, alla salute, al lavoro) poggia necessariamente sulla sussistenza del diritto più fondamentale che ci sia: la sicurezza dell’integrità fisica della persona e dei suoi beni (materiali ed immateriali).
Quindi, così come siamo tutti pienamente consapevoli che per garantire tale diritto alla sicurezza rispetto ai pericoli “interni” sia indispensabile destinare adeguate risorse al finanziamento delle preposte forze dell’ordine (Polizia, Carabinieri, eccetera), occorre riacquisire altrettanta consapevolezza – offuscata per lungo tempo dall’illusione di un eterno e gratuito ombrello americano – che pure le forze armate (Esercito, Aviazione, Marina) sono altrettanto indispensabili per tutelare esattamente lo stesso diritto rispetto a rischi “esterni”.
A chi invoca l’ideale di una “Europa neutrale”, sarebbe salutare ricordare che il Paese neutrale per antonomasia, la Svizzera, ha fondato la sua vocazione alla neutralità (oltre che su una posizione geografica che non ha mai interessato a nessuno e ad un segreto bancario che ha fatto comodo a tutti) su un’antica abilità guerriera – non a caso, i Papi da oltre cinquecento anni hanno scelto le Guardie Svizzere a difesa del Vaticano – e su un obbligo di leva universale in cui, dopo il primo servizio sotto le armi, per dieci anni si è chiamati a ritornare in caserma per periodici corsi di ripetizione.
Una adeguata capacità di difesa rappresenta la polizza assicurativa posta a garanzia della pace, bene sommamente prezioso; e, come accade per tutte le assicurazioni, se ne paga il premio proprio nell’intento di non doverla mai utilizzare.
Pubblicato su la Gazzetta di Parma martedì 11 marzo 2025